Sistemai la voce per iniziare,
si ha un fremito quando si sta per parlare,
ma quello che preoccupava era il dopo,
come quando devi decidere se saltare un antipasto
a favore di un dolce alla fine.
Non emisi suono
e mi intortai con una dieta.
Sistemai la voce per iniziare,
si ha un fremito quando si sta per parlare,
ma quello che preoccupava era il dopo,
come quando devi decidere se saltare un antipasto
a favore di un dolce alla fine.
Non emisi suono
e mi intortai con una dieta.
Senza disporre di un titolo – ciò per cui si può valutare il contenuto di uno scritto, in questo caso – m’imbarco su un foglio liscio, ignaro di quel che ne verrà.
Vado a tasto, cerco un appiglio.
E’ un tempo di apparente calma – superficie larga e schiacciata in cui raccolgo i fatti della quotidianità tenuti in caldo, ma raffreddabili per forza prima o poi – e con tutto quello che prende per le caviglie, le mani o per il collo con in su la testa, sembra non esserci modo di prezzare il mondo, svalutandolo a pressione non voluta o nemico da cui guardarsi.
Non piangere o ridere quindi? Magari incupirsi o sorridere, perdendo un livello più alto e altro che crei un’empatia migliore.
Il possibile s’ingegna poco nella spinta che affratella. E questo è il punto: non sentire di appartenere al gruppo familiare in senso largo e stare da soli quel tanto che basta per non sopportare e non escludere.
Non proprio come la comparsa in strada – che dove inizia non si sa – di un camminatore stanco e impolverato che si avvicina e va oltre un punto di vista, una posizione ferma. Qui, l’arguzia e il fatto noto, o il detto prima, sembrano avere carattere sconosciuto e soprattutto non sanno dove andranno a pararsi. Come in tutte le premesse quindi alludo e lascio correre.
Se ben cominciassi sarei a metà.
Dove la costituzione del corpo, l’abito o l’inclinazione, non lasciano molte possibilità di scelta apparente, tra quelle che non mi sono congeniali, quasi un vizio d’organismo che approssima e non finisce, un vezzo semplice.
Un territorio senza traccia, a guardare dietro, privo di agitazione che non agisce eppure svela qualche tratto di sussulto cardiaco o moto di stomaco quando vengono alla mente un fatto, una persona, o più d’una. Ultima serie, ieri notte, ma non dirò ché a farlo non aiuta il gorgo a salire.
Altra proposizione è la mancaza d’ardire sotto forma, per esempio, di un colloquio a poche frasi, un porsi fuori che disperde, o l’attitudine alla risposta breve, sicura che non piace, ma vorrebbe. Quasi un dovere umanitario che calma l’ego e forse il destinatario.
Non aspetto versi, prendo direzioni plurime.
Che sia chiaro a me l’osceno in tutto il suo candore, coprente a tratti, dei rapporti mossi dal bisogno,
anche io sto nel giro e sono quello che lamento.
Perché alla fine dell’appetito ci si addormenta e si scorda d’aver preteso qualcosa,
come quando la dispensa è piena e non esci a fare spesa.
Non che manchi cosa pensare, semmai c’è una sequenza bizzarra di sospiri che traduce le fatiche in oblio riparatore.
La riconciliazione rimanda a una rottura, leggevo da Joyce. Mi riconcilio in abbondanza allora, di nascosto, giocando.
E va bene che cada per le scale delle riserve,
delle storie raccontate male,
dove non splende la luce della sequenza di senso.
Occorre pur cadere se è condizione di azioni necessarie,
al posto del solito tram desiderio
che va verso i quartieri delle omissioni infette.
Un sospetto frugato nelle tasche
è quello della bella figura non fatta,
del meglio che manca a questo sforzo senza fine
e poi piove su qualcosa, tamerici comprese.
Di casa in casa, senza armonie precise,
dove il gusto stenta perché troppo piene di necessità.
Sempre cado per le scale
ed è panico in calzamaglia
o stupore inchiostrato di blu,
feticcio d’infanzia,
per un ulisse che torna.
Non temere, poi fa giorno
anche se il buio si ripete,
e tutto si palesa ai piedi di una pagina.
Il linguaggio a volte non porta risposte e, come un ditticco ben pitturato che non s’apre, al vento dei modi vi s’impiglia.
Sarrebbe giusto quindi tenere a bada un giudizio o arrotondarne il quadrato, ma la rana scorpione non è.
Sono passato da quel centro ai turbinii di questo confine e ciò che conta è che le mancanze, incolmabili per indole, che ti arrestano a un passo dalla porta, ti caccino fuori perché tempo, luogo e persone non si tengono nella bolla con la neve
che poi se la muovi ti sembra vera.
La staffetta è finita,
si sta
ed è nuovo tutto, o quasi,
certamente non l’attesa che arrivi qualcuno a farti bello.
Mancato da tanto, in prima persona, da luoghi frequentati a morsi e fughe, per necessità virtuose, piaceri misti e doveri replicanti che quando ho creduto di rimetterci i piedi, la gola aveva già l’acqua per collana. Tra dondolii da spasmo, mi sono girato, pagina non casuale e inevitata. L’overture non ha spaccato e il primo atto, ora, ha uno sviluppo entusiasmante e cadute da riabilitare.
Si può pensare l’esodo e togliere lo scampanio delle opinioni a raggiera, senza fine. Dopo fai, come se entrassi nelle stanze di una casa, non tua, che vorresti e le attraversi.
Sirene chiamano intanto il tuo ulisse, non si sa mai.
Quindi il telo è steso e teso, pieghevole in tutte le metà possibili, poggiato nel disordine recidivo, dominabile. Dimore senza stucchi o specchi, piccoli vani invece edificati a gradi, porte di misura e forma varie e una corte senza prospettiva.
poi una sensazione di piccola ferita, un disappunto per un appunto e via correndo
l’idea di credersi in una crisi da cura eccezionale o di un appiattimento che fa piatti, di portata o meno, preoccupa poco
quello che invece tiene è non forzare, in preda ad un’esibizione di ragioni
da qualche anno, tutto sembra a una svolta, pur avendo la stessa faccia,
le cose si sono sparpagliate, perdendo contatto, e si gira in luoghi d’ombra
non so come dire,
uno schianto in pieno silenzio, un’implosione di difesa anche non necessaria,
una teoria adatta agli alibi correnti,
fatto sta, e parola pure, che alcune cose non mi convincono,
per essere parchi